16 Febbraio 2023

Ciao, Fulvio
…e ciao alle ascoltatrici e agli ascoltatori di Spread the Darkness!

Per introdurre il tema di stasera approfitto di una sincronicità che mi è capitata qualche giorno fa…

La volta scorsa, accennavo al video di “Where the wild roses grow”, ma non ho detto che il regista si è ispirato al dipinto di Sir John Everett Millais intitolato Ofelia.

In questi giorni sto guardando “Lockwood and Co.”, serie Netflix ambientata in un futuro distopico in cui un evento di qualche genere ha risvegliato fantasmi in tutto il mondo. Questi spettri, aggressivi e dal tocco mortale, sono una piaga planetaria per arginare la quale sono state create delle squadre di adolescenti con poteri psichici, una specie di Ghostbusters, ma più violenti e con un tasso di mortalità decisamente alto.
In uno degli episodi, mentre i protagonisti fanno una ricerca su un’attrice di teatro, che è anche un fantasma da loro catturato, scoprono che in vita era diventata famosa proprio interpretando Ofelia nell’Amleto. Ed ecco che mentre ne parlano aprono un libro che mostra proprio il quadro di Millais di cui avevo letto qualche giorno prima!

Nel quadro la morte di Ofelia è rappresentata  così come riportata da Gertrude nell’Amleto. Ofelia, ormai fuori di sé per il dolore, cade nel fiume da un salice su cui si è arrampicata per fare ghirlande di fiori. All’apparenza incosciente del pericolo, continua a cantare finché le vesti, pesanti per l’acqua, la trascinano a fondo ed ella muore annegata.

Ofelia è vittima di un disagio psichico che, nelle sue cause, può ricordare lo stress post-traumatico e nella sua manifestazione una forma di schizofrenia, una disconnessione che le impedisce di riconoscere o addirittura la porta a rifiutare la realtà, al punto di lasciarsi morire.
Se la sua morte sia incidentale o volontaria, è dibattuto nell’Amleto stesso tra Laerte, fratello di Ofelia, e il prete che ne ha officiato le esequie.

Su quel tipo di disagio, apatia o depressione, che portano a scegliere di lasciarsi andare o di commettere suicidio, molte pagine di storia della musica sono state scritte, sia in termini di canzoni sia in termini di tristi e inspiegabili conclusioni nelle biografie di molti artisti.

Nel mio mondo dalle tinte gothic-doom, in cui mi sentivo fuori posto un po’ ovunque, la morte suicida esercitava un certo fascino, aggiungeva qualcosa di “maudit”, di maledetto, ai miei disagi tardo-adolescenziali.
Emblematici per me, all’epoca, erano brani come “Fade to Black” dei Metallica o gruppi con nomi espliciti come i Suicidal Tendencies. Più avanti negli anni lo sono state canzoni come “Numb” dei Linkin Park che abbiamo cantato tutti, magari ignorandone il significato.

Su tutti, quello che vi segnalo stasera, è il concept album “River Runs Red” dei Life of Agony.
Il disco uscito per Roadrunner Records nel 1993, è un viaggio di 50 minuti che ci conduce al tragico epilogo della vita di un ragazzo qualunque, accompagnato dalla musica dei Life of Agony.
Alle canzoni dai testi espliciti, cariche di rabbia, frustrazione, senso di perdita e vuoto, si alternano tre tracce “teatrali” intitolate “Monday”, “Thursday” e “Friday” in cui ascoltiamo, e visualizziamo con la nostra immaginazione, gli eventi degli ultimi giorni del protagonista.
Forse proprio grazie a questo sforzo immaginativo, e magari anche all’ascolto in cuffia isolato dal mondo esterno, ho sempre trovato facile e alienante immedesimarmi in quella storia.
Insomma, un concept che ci parla di una realtà in cui violenza psicologica, fallimento e depressione possono portare a scelte irreversibili.
Un disco pesante, con un finale che è un pugno nello stomaco, ma che sento fortemente di suggerirvi.

Bene, anche stasera abbiamo avuto un assaggio di tanatologia pop: dalla pittura alla musica, al teatro, al cinema, per tornare alla musica, e come filo conduttore la morte e le riflessioni che ne possono emergere.

Una bella pennellata nera sull’oscurità di Spread the Darkness.
Buonanotte a tutto il pubblico e naturalmente grazie a JKross che mi ospita.

Playlist di questa puntata:

Foto di copertina di Alice Alinari da Unsplash.

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